Malattia maniaco-depressiva (disturbo bipolare)

Il disturbo bipolare è una malattia mentale caratterizzata da episodi di eccitamento maniacale, di depressione o misti, separati da intervalli più o meno asintomatici. Frequenza, ritmo, intensità e durata delle crisi variano molto da caso a caso. E così il grado di recupero interepisodico, con remissione dei sintomi completa o parziale. La durata media degli episodi, in assenza di terapia, va da qualche mese a due anni. A volte sono assai brevi e frequenti (cicli rapidi); è raro che si protraggano per anni (forme croniche). Il termine «episodio» indica bene il carattere circoscritto nel tempo, fasico, dei sintomi e l'aspetto di variazione accessuale del modo di essere di un individuo durante la crisi rispetto al periodo precedente e allo stile di vita abituale.

Stati melanconici e maniacali sono stati descritti da Ippocrate (v sec. a.C). e dalla sua scuola. Medici dell'antichità come Areteo di Cappadocia (1 sec. d.C.) suggerivano già l'ipotesi di un legame fra le due condizioni. Avicenna (980-1037) sostenne esplicitamente che la materia che produce la mania è della stessa natura di quella che produce la melanconia. Per duemila anni la teoria ippocratica dei quattro umori (sangue, flegma, bile gialla e bile nera), perfezionata da Galeno nel n secolo, ha attribuito la melanconia a eccesso di bile nera e la mania a eccesso di bile gialla. Il cuore, non il cervello, è stato ritenuto a lungo l'organo responsabile dei disturbi dell'umore. Ma torniamo al punto: l'idea di una connessione fra stati depressivi ed eccitamento maniacale. Al '700 appartengono descrizioni mediche per lo più frammentarie e scollegate fra loro, ispirate da classificazioni improvvisate e da speculazioni eziologiche prive di basi empiriche. Con qualche eccezione importante: verso la metà del secolo, il medico inglese R. Mead scrisse che melanconia e mania differiscono fra loro solo in termini quantitativi e che è assai frequente che la melanconia si trasformi, presto o tardi, in mania e poi, quando la furia si è placata, la tristezza ritorni, pili pesante di prima. L'idea di una malattia unica con fasi melanconiche e maniacali cominciò a delinearsi con forza e chiarezza solo un secolo dopo, per opera di due psichiatri francesi, J.-P. Falret e J.-G. Baillarger. La loro ipotesi fu esposta in due lavori indipendenti pubblicati nello stesso anno, il 1854. Falret parlò di «follia circolare», Baillarger coniò l'espressione «folliain forma doppia». Qualche decennio più tardi (1882), in Germania, K. Kahlbaum introdusse un altro termine, «ciclotimia», per descrivere una malattia circolare caratterizzata da episodi di depressione e di eccitamento senza esito in demenza. I tempi erano maturi perché E, Kraepelin disegnasse il perimetro del concetto noso-grafico di malattia maniaco-depressiva. Fu lui a introdurre l'espressione «psicosi maniaco-depressiva» nel 1899, nella sesta delle nove edizioni del suo celebre trattato di psichiatria. Il 1899 fu un anno davvero cruciale per le due anime della psichiatria moderna. Il 4 novembre dello stesso anno l'editore Deuticke di Lipsia pubblicò il testo di fondazione della psicoanalisi: L'interpretazione dei sogni. Quasi presago dell'importanza, vi pose però la data d'inizio del nuovo secolo, 1900.

S. Freud e Kraepelin erano nati nello stesso anno, il 1856. La loro opera, tenacissima e geniale, avrebbe segnato e lacerato il pensiero psichiatrico del '900 lasciando due impronte difficili da ricondurre a un solo cammino. Nel 1899 Kraepelin insegnava a Heidelberg da otto anni. Era già un rappresentante prestigioso di quella visione della psichiatria che ne faceva una branca delle scienze della natura. Kraepelin si ricongiungeva ai tentativi di classificazione delle malattie in «specie naturali». La prima opera sistematica in questo senso era stata probabilmente quella di F. Boissier de Sauvages, professore di botanica e medicina a Montpellier. Nella sua Nosologia Methodica aveva diviso le malattie in dieci classi, assegnando le malattie mentali alla classe ottava, che aveva poi diviso in quattro ordini e ventitre generi. Il genere «melanconia», per esempio, comprendeva quattordici specie. Ogni specie era illustrata da brevi descrizioni cliniche. Il lavoro di Boissier, un primo abbozzo del quale apparve nel 1732, inaugurò un metodo coerente con lo spirito dell'Illuminismo, il culto della razionalità, la fede nella scienza, il valore della società organizzata come creazione dell'uomo. Sulla sua stessa linea si mossero fra gli altri il botanico svedese C. Linneo, il medico inglese W. Cullen - l'inventore del termine «nevrosi» - e l'alienista francese Ph. Pinel, autore della Nosographie philosophique.

Nella sesta edizione del suo trattato, sulla base dello studio accurato di un grandissimo numero di storie cliniche Kraepelin gettò le basi di una nuova classificazione delle malattie mentali fondata sul decorso: la diagnosi doveva fornire anche la prognosi. Il campo della grande psicopatologia fu diviso fra psicosi maniaco-depressiva e dementia praecox. La prima si distingueva dalla seconda per tre caratteri principali: il decorso fasico, la prognosi più benigna e la presenza tra i familiari di altri casi della stessa malattia.

Più tardi, nell'ottava edizione del trattato, demenza precoce e follia maniaco-depressiva furono definite «psicosi endogene». L'attributo era diretto a qualificare quelle malattie che nascono dall'individuo, dalla sua costituzione. Si assumeva che l'ambiente esterno potesse influire, invece, solo sulle malattie esogene, sia nel provocarle che nel curarle. Le malattie endogene erano dunque, nei fatti e per definizione, quelle incurabili. Il concetto, coerente con lo spirito della psichiatria del tempo, contribuiva a togliere responsabilità alla società e a giustificare l'isolamento manicomiale degli alienati, la pratica all'epoca più diffusa. Attraverso il lavoro di Kraepelin la scuola tedesca ha occupato una posizione egemone nella psichiatria europea per un lungo periodo che si può datare fra il 1880 e il 1914. Gli psicoanalisti hanno studiato molto la depressione, meno la psicosi maniaco-depressiva. Alcuni saggi di K. Abraham e M. Klein restano memorabili. I lavori di Abraham si iscrivevano fra i primi tentativi di interpretare dal punto di vista analitico il quadro no-sografico delle psicosi, come aveva già fatto C. G. Jung per la dementia praecox. Ricordiamo solo, nella gran messe di osservazioni cliniche e di proposte teoriche, il tentativo di assegnare a mania e melanconia le stesse cause e, poi, l'attenzione all'uso del linguaggio durante la crisi maniacale e alla fuga delle idee vista come motto di spirito generalizzato. Nelle pagine della Klein corrono la sua ipotesi di due posizioni, paranoide e depressiva, proprie dello sviluppo psichico infantile e una visione della mania come difesa non solo dalla melanconia ma anche dalla paranoia. Nel riprendere e riorganizzare i contributi di Abraham, la Klein accentuò l'importanza dell'odio e dell'ambivalenza nella psicogenesi della follia maniaco-depressiva.

In ambito nordamericano, in un contesto che aveva accolto - e profondamente alterato - la psicoanalisi freudiana, il pensiero dello psichiatra A. Meyer esercitò un'influenza sempre più rilevante. La psicopatologia era vista come effetto dell'interazione fra caratteri individuali, biologici e psicologici, e ambiente sociale. Anche per la psicosi maniaco-depressiva l'attenzione si allontanò dalla fenomenologia clinica e dalla storia naturale per concentrarsi su problemi di vulnerabilità, eventi traumatici, interazioni ambientali. Un riflesso si coglie nel nome coniato per questa malattia nella prima edizione ufficiale del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-I, 1952): reazione maniaco-depressiva. In questo clima, il pragmatismo e l'ottimismo americano can-do usarono per qualche decennio psicoterapie psicodinamiche con pazienti psicotici, a dispetto dello spirito scettico e delle cautele cliniche di Freud che aveva sostenuto esplicitamente che la psicoanalisi non è una cura della schizofrenia e non aveva mai dichiarato che lo fosse per la psicosi maniaco-depressiva. Come sempre accade, il cattivo uso di uno strumento rischia poi di farne dimenticare i buoni impieghi.

In Europa, E. Bleuler tentava di opporre alla dicotomia kraepeliniana l'idea di un continuum fra schizofrenia e malattia maniaco-depressiva: i malati si distribuirebbero in punti diversi di un'unico spettro e il singolo individuo potrebbe occupare varie posizioni in tempi successivi. La tesi sembrò più forte quando nel 1933 J. Kasanin descrisse una serie di pazienti con psicosi maniaco-depressiva e sintomi psicotici fuori dagli episodi critici. Da queste osservazioni nacque la categoria diagnostica «disturbo schizoaffettivo» - accolta ancora nel DSM-IV-TR (2000) - considerata una delle maggiori spine nel fianco della nosologia di Kraepelin. Alla fine degli anni '50, mentre nasceva la psicofarmacologia, K. Leonhard formalizzò la distinzione fra casi in cui si verificano solo episodi di tipo depressivo e casi in cui sono presenti anche crisi maniacali, proponendo di chiamare le forme del primo tipo disturbi «unipolari» e le altre «bipolari». L'ipotesi di una netta demarcazione tra i due tipi non è risultata però sostenibile e ha vinto l'idea di uno spettro che va dalle depressioni maggiori ricorrenti unipolari, ai disturbi bipolari I e II, alla ciclotimia. La nosologia neo-kraepeliniana del DSM, a partire dalla terza edizione (1980), ha accolto e sviluppato 1 mesto tino di classificazione.

Ma torniamo alla descrizione della malattia. Nel corso di un episodio maniacale, il tono dell'umore è elevato, euforico in modo abnorme e persistente. A volte una grande irritabilità prende il posto dell'euforia. Discorsi e gesti tendono alla grandiosità, alla megalomania. Le idee fuggono e si accavallano. L'attenzione si distrae continuamente. La libido è aumentata. Un individuo in stato maniacale dorme poco. Parla moltissimo con scherzi e giochi di parole. S'impegna in modo frenetico in attività lavorative e ludiche oppure è preda di un'agitazione psicomotoria senza scopi concreti. Può andare incontro a esplosioni di aggressività anche gravi e pericolose, abbandonarsi a comportamenti sessuali disinibiti e inconsueti, lasciarsi coinvolgere in imprese e in spese sconsiderate. Una crisi maniacale esplode di solito in modo acuto, nello spazio di un giorno o due, senza consapevolezza del suo carattere patologico. Si parla di episodio «ipomaniacale» quando c'è un sentimento esagerato di benessere, un umore molto gaio e un'iperattività ma i sintomi sono attenuati rispetto alla mania, la durata è più breve e non c'è compromissione significativa della capacità di lavorare e di mantenere relazioni sociali adeguate.

Durante un episodio depressivo, in particolare in quelli definiti «maggiori» dalla psichiatria di lingua inglese, il tono dell'umore è triste e abbattuto, talora lamentoso e incline al pianto. La manifestazione principale è, in certi casi, l'irritabilità. I livelli di energia e di attività sono molto ridotti. La capacità di provare interesse e piacere è scomparsa, anche nei riguardi di cose che abitualmente li suscitavano. Il desiderio sessuale è spento. Il sonno è diminuito con tendenza a risvegli precoci, spesso pieni d'angoscia; altre volte, invece, si osserva una tendenza a dormire molto (ipersonnia depressiva). In modo analogo, appetito e peso corporeo tendono in genere a diminuire (anoressia depressiva) ma in certi casi aumentano (depressione iperfagica). I movimenti sono rallentati e privi di energia, ma in alcuni casi si osserva uno stato di agitazione psicomotoria. L'eloquio è ridotto fino al mutacismo. Le capacità di concentrarsi e prendere decisioni anche minime sono diminuite o perse del tutto. La produttività nel lavoro è compromessa. La mente di una persona depressa è percorsa da pensieri pessimistici, catastrofici, di svalutazione di sé, di colpa. Non c'è futuro né speranza. Sono frequenti i desideri di morte e i gesti autolesivi fino al suicidio. Alcuni dei sintomi descritti prendono il nome di «manifestazioni melanconiche» dell'episodio depressivo: l'anedonia (perdita completa di piacere e interesse), l'insonnia da risveglio molto precoce, il ritmo circadiano dei sintomi con un regolare peggioramento nelle ore del mattino, la perdita di appetito e di peso. Un «episodio misto» è caratterizzato, infine, dalla presenza contemporanea e paradossale di sintomi maniacali e depressivi: mania e depressione maggiore si mescolano o si alternano rapidamente, a distanza di poche ore. Quadri di questo tipo, dominati dalla labilità dell'umore con oscillazioni continue e violente, sono più frequenti degli stati di esaltazione maniacale pura. Nel corso di tutti questi episodi possono essere presenti manifestazioni psicotiche (allucinazioni e deliri) più o meno congrue rispetto all'alterazione dell'umore. Deliri congrui rispetto a un episodio maniacale sono quelli articolati intorno a una visione grandiosa di sé; deliri coerenti con una fase depressiva sono quelli ispirati da temi di colpa, fallimento, miseria, malattia. Sintomi di tipo schizofrenico si osservano nel 20% circa dei pazienti in stato maniacale. In occasione delle crisi - sia depressive che maniacali o miste - il quadro clinico può essere dominato da alterazioni psicomotorie gravissime: può capitare che un soggetto resti immobile, per ore o giorni, la mimica congelata in un'espressione di stupore o d'indifferenza (stupor, catalessia); oppure che sia agitato in modo incontenibile. Va ricordato che sintomi depressivi o maniacali possono insorgere anche come effetto di cause riconoscibili e, in questo caso, non possono essere considerati espressione di malattia maniaco-depressiva. Sintomi di tipo maniacale possono essere indotti, per esempio, da lesioni e malattie del lobo frontale, trattamenti medici (steroidi, antidepressivi, terapia elettro-convulsivante, light therapy), droghe d'abuso (amfetamine, cocaina, allucinogeni), sclerosi multipla, malattia di Wilson, epilessia temporale, ipertiroidismo.

E’ possibile ma raro che un episodio di alterazione patologica del tono dell'umore (e del livello di attività) capiti una sola volta nell'arco di un'intera vita. Per lo più le crisi hanno carattere ricorrente e si ripetono più volte, a distanza di mesi o di anni, con caratteri ora maniacali ora depressivi. Quanti episodi e di che tipo devono essersi verificati perché si possa far diagnosi di malattia maniaco-depressiva? Dobbiamo premettere che questa espressione non figura più nei due sistemi di classificazione delle malattie mentali maggiormente seguiti negli ultimi anni, l'ICD-10 e il DSM-IV-TR. Il quinto capitolo dell'ICD-ro parla di bipolar affettive disorder, collocandolo nella sezione dei disturbi dell'umore (mood or affect disorders). Per inciso, il lessico psichiatrico anglo-americano tende ormai a preferire, per queste patologie, il termine mood rispetto ad affect: quest'ultima parolaevoca stati emotivi lievi e transitori che hanno poco a che fare con le variazioni brutali dell'umore delle quali stiamo parlando. Seguendo l'ICD-10, la diagnosi di disturbo bipolare può essere applicata ai casi in cui una persona sia andata incontro, durante la sua vita, ad almeno due episodi di alterazione patologica dell'umore, uno almeno dei quali di tipo ipomaniacale, maniacale o misto. In altri termini due episodi maniacali senza episodi depressivi consentono la diagnosi di disturbo bipolare ma non due episodi depressivi senza mai sintomi maniacali. Anche il DSM-IV-TR classifica i quadri clinici caratterizzati da episodi maniacali e depressivi fra i disturbi dell'umore e propone di distinguere quattro forme principali:

1) disturbo bipolare I: è in corso o si è verificato in passato almeno un episodio maniacale o un episodio misto;

2) disturbo bipolare II: è in corso o si è verificato in passato almeno un episodio ipomaniacale ma non si sono mai verificati episodi maniacali o misti; è in corso o si è verificato in passato almeno un episodio depressivo maggiore;

3) disturbo ciclotimico: instabilità persistente dell'umore con numerosi episodi ipomaniacali e periodi con sintomi depressivi per almeno due anni (nei bambini e negli adolescenti, per almeno un anno). I sintomi depressivi non raggiungono mai l'intensità di un disturbo depressivo maggiore e quelli euforici mai il livello di un episodio maniacale;

4) disturbo bipolare non altrimenti specificato: raccoglie le forme con caratteristiche bipolari che non rientrano nelle tre categorie sopra elencate (per es. episodi ipomaniacali ricorrenti senza sintomi depressivi intercorrenti). Secondo il DSM, dunque, anche un solo episodio maniacale basta per far diagnosi di disturbo bipolare I. La scelta è dovuta al fatto che quando la malattia esordisce con una crisi di eccitamento maniacale, una o più fasi depressive seguiranno quasi invariabilmente: la mania «unipolare» è rarissima.

Occorrono, invece, almeno un episodio depressivo maggiore e un episodio ipomaniacale per far diagnosi di disturbo bipolare II. Facclamo ancora una riflessione sintetica sui principi che ispirano l'attuale costrutto «disturbo bipolare» rispetto ai fenomeni clinici che intende raccogliere. Per entrambi i sistemi di classificazione, le depressioni ricorrenti, senza mai sintomi di tipo marnatile, non rientrano fra i disturbi bipolari, mentre le crisi maniacali ricorrenti, senza mai sintomi di tipo depressivo, vi rientrano.

Qual è il tempo minimo di durata dei sintomi richiesto dai criteri diagnostici correnti ?

Breve: ICD-10 e DSM-IV fissano i limiti seguenti: negli episodi ipomaniacali i sintomi devono durare almeno quattro giorni; negli episodi maniacali e misti, almeno una settimana (l'ICD-10 fa salire il limite a due settimane per gli episodi misti); negli episodi depressivi maggiori, almeno due settimane.

Entriamo in qualche altro dettaglio nosologico. Si parla di «disturbo ad andamento stagionale» (seasonal affettive disorder) nei casi

in cui sia possibile dimostrare una relazione temporale regolare fra l'esordio dei sintomi depressivi e un particolare periodo dell'anno (per es. autunno-inverno). Anche le remissioni o i viraggi in senso ipomaniacale o maniacale possono accadere soprattutto in una certa stagione (per es. in primavera). L'espressione «a cicli rapidi» si applica a quei casi di disturbo bipolare I o II nei quali si siano verificati almeno quattro episodi di alterazione dell'umore (maniacali, ipomaniacali, misti o di depressione maggiore) negli ultimi dodici mesi. Una considerazione, infine, sulle scelte terminologiche. Aver sostituito l'espressione «maniaco-depressiva» con «bipolare» non è una scelta del tutto convincente. Il termine «bipolare», più generico, smarrisce la componente descrittiva e narrativa presente nell'espressione antica e, soprattutto, enfatizza la contrapposizione e la distanza fra due condizioni. Sappiamo invece che in questa malattia è tipica, piuttosto, l'oscillazione fra i due stati e che sintomi maniacali e depressivi si intrecciano addirittura e si mescolano nei frequenti episodi misti. Il rischio di ammalarsi di malattia maniaco-depressiva nell'arco della vita è intorno allo 0,5-1%. Non ci sono differenze significative di incidenza e prevalenza fra le classi socioeconomiche né fra i generi, a differenza di quanto accade per la depressione maggiore, più comune fra le donne e nelle classi sociali più basse. L'età d'esordio cade per

10 più prima dei trent'anni: nella tarda adolescenza e in età giovanile; episodi depressivi e maniacali si possono manifestare però anche in età infantile e adolescenziale. La depressione si manifesta con sintomi tipici o, più spesso, si maschera dietro disturbi del comportamento, irritabilità, aggressività, chiusura, isolamento. L'eccitamento maniacale si esprime soprattutto attraverso una grande distraibilità, fuga delle idee e, a volte, allucinazioni, specialmente uditive. È importante, anche in questi casi, riconoscere il carattere ciclico delle crisi per istituire le cure opportune.

Il fattore genetico ha un peso importante: si calcola una ereditabilità dell'86%. I tassi di concordanza monozigoti/dizigoti si aggirano intorno a 4:1 (80% vs. 20%). Sono probabilmente in causa geni sul cromosoma II.

Come aveva osservato lo stesso Kraepelin, esperienze ed eventi traumatici della vita possono intervenire sia come fattori predisponenti che precipitanti. Le teorie neurochimiche si sono concentrate su due trasmettitori cerebrali: noradrenalina (NA) e serotonina (5-HT). Secondo la versione più semplice, la depressione sarebbe associata a un difetto di queste amine e la mania a un eccesso. I dati che derivano dalla ricerca di base hanno in parte suffragato e in parte contraddetto queste ipotesi aprendo sempre nuovi interrogativi.

Un paziente in stato maniacale può essere difficile da intervistare direttamente. Le informazioni raccolte attraverso altre persone sono utili. Alcuni punti essenziali: quando e come si sono manifestati i sintomi ? ha assunto di recente farmaci o droghe ? soffre di malattie somatiche ? ha avuto altre crisi psicopatologiche in passato ? di che tipo ? quali psicofarmaci gli sono stati prescritti ? qual è la storia psichiatrica familiare ? è possibile ottenere un consenso alle cure ? Sulla base del quadro clinico si opta per una cura ambulatoriale, spesso possibile, o ospedaliera, in regime obbligatorio nei casi gravi di rifiuto tenace delle cure. La terapia è essenzialmente farmacologica: neurolettici, benzodiazepine e/o litio. In rarissimi casi di non risposta ai farmaci può essere utile un trattamento elettro-convulsivo. La prevenzione delle ricadute è affidata agli stabilizzatori dell'umore. I più usati sono litio, carbamazepina e valproato di sodio. La prognosi è legata all'adesione alla cura (compliance). I pazienti devono essere informati sulla necessità di un trattamento farmacologico continuo a lunga scadenza e sollecitati a riconoscere e a segnalare subito i primi sintomi di crisi (per es. l'insonnia). Contatti e colloqui regolari contribuiscono molto alla prevenzione delle crisi. Un rischio grave nella malattia maniaco-depressiva è il suicidio: un caso su cinque in assenza di cure adeguate.

MASSIMO CUZZOLARO